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Aggiornato Domenica 14-Mag-2023

 

 

 

Tabù. Parlare della morte, è un Tabù. Non si può parlare neanche della propria, se lo si fa subito si è zittiti con una gragnuola di banalità di cui la più ridicola è “sei giovane” - servita ad agni età, ma ancor più stridente dopo i cinquanta.

Dopo i cinquanta…

Se si è sopravvissuti malgrado le avventatezze giovanili, i rischi corsi inutilmente (o utilmente pro bono di qualcun altro), gli incidenti piccoli e grandi, le patologie, i traumi accumulati in un’infanzia triste o spaventosa, i dolori procurati e subiti negli anni successivi, insomma, se si è sopravvissuti nonostante tutto, dopo i cinquanta diviene chiaro che il tempo restante non è infinito come sembrava a venti, soprattutto non è sufficiente nemmeno per tentare di chiudere i conti, mirare ad un pareggio. Si è a scadenza, una fine tutt’altro che di là da venire.

Può accadere ogni giorno che la Morte venga a bussare alla porta e la sensazione è di incompiutezza, la paura è di non essere pronti e che mai lo si sarà.

Mi assale adesso il dispiacere profondissimo per la fine che farà il mesto racconto della mia esistenza: dalla sua inutile esposizione pubblica, agli oggetti raccolti con tanta fatica in anni e anni di sacrifici. Ogni cosa parla di me, testimonia ciò che sono stato, quello che ho pensato e fatto. Sono stato preso a calci da una vita che poteva togliermi il respiro in ogni momento, e invece me lo ha lasciato in modo che potessi vedermi morire un poco alla volta, giorno dopo giorno, sopraffatto dalle preoccupazioni e dalla solitudine.

Si diventa vecchi e si comincia a morire quando non si hanno più opportunità, quando la vita, le persone, gli altri, si voltano dall’altra parte, dimenticano che sei esistito, non si accorgono che esisti ancora.

Ecco, sono morto.

Il corpo marcisce sul pavimento della cucina. La radio accesa. La casa - che talvolta è stata rifugio, più spesso zavorra, fardello – è adesso immobile, fredda. I giorni e le notti s’inseguono mentre il puzzo finalmente richiama un piccolo esercito di estranei che violano il sacrario senza alcun riguardo. Finito. Tutto è finito. Nella confusione qualcuno s’infila in tasca un ninnolo, qualcuno apre le finestre, qualcun altro cerca nel portafoglio un documento, sul cellulare un numero da chiamare. Scartoffie riempite sul tavolo ancora apparecchiato, domande fatte a inquilini che nulla sanno e quando la gente non sa, inventa. Eppure tutto parla di me, per me, basterebbe guardarsi intorno, ma nessuno ha occhi per vedere, orecchie per sentire, così, nella concitazione e nell’indifferenza, la voce flebile che ogni cosa trasuda si confonde e perde.

Il corpo se ne va ed io non voglio seguirlo, non m’interessa, mi sento meglio a saperlo finalmente separato da me. In fondo è stato d’intralcio e nulla mi lega a lui. Resto a guardare il vuoto, ad ascoltare il silenzio. Non posso più accendere la radio. La musica mi manca. Posso solo aspettare che qualcuno venga a svuotare la casa portando in discarica l’intera mia esistenza, i miei ricordi, le prove che sono esistito. Guarderò e non potrò fare nulla per impedirlo.

Alla fine capisci di aver sprecato quasi ogni istante. Io li ho impiegati per lasciare un segno, per circondarmi di bellezza come fosse aria, per non morire, dentro. Invece avrei dovuto buttare in uno zaino giusto un cambio di vestiti e andarmene. Andarmene, per godere di ciò che la vita può offrire se solo si ha il coraggio di lasciarsi alle spalle il poco, il niente. Sarei morto, certo, come sono morto adesso – ma nessun camion si sarebbe portato via la mia storia per gettarla nella spazzatura e forse, chissà, qualcuno avrebbe tenuto la mia mano per non lasciarmi andare, per non farmi sentire solo – e allora vivere e morire avrebbe avuto senso, il senso che oggi, qui, non ha.

 

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