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Aggiornato Domenica 14-Mag-2023

 

 

 

Non ho avuto tempo per vivere una vita normale - ero troppo impegnato a sopravvivere alla mia, quella che mi è stata rifilata alla nascita e che per quanto mi sia sforzato non ho potuto scrollarmi di dosso.

Ogni energia l'ho spesa per costruire un futuro che non è mai arrivato, per tenere la testa fuori dalla melma, respirare, per affrancarmi, esprimere pienamente e onestamente ciò che ero, affermare la mia degnità, trovare il mio posto, darmi un senso, essere utile.

Un ingenuo.

Sono stato il Re dei babbei e lo sono stato così pervicacemente e così a lungo che persino oggi, di fronte all’evidenza, mi illudo di avere qualche possibilità. È possibile che in un altro tempo e luogo il mio valore avrebbe pesato, sarebbe bastato, ma qui non è servito a nulla, anzi, a dirla tutta ogni mio talento, ogni capacità, ogni protesta, richiesta, hanno contribuito ad accrescere la distanza tra me e il mondo, la sua indifferenza se non proprio disprezzo nei miei confronti.

È andato tutto storto, o meglio, è andato tutto come doveva, secondo le regole non scritte che nella migliore delle ipotesi trasformano l'esistenza di alcuni in spazzatura neppure buona per concimare.

Ho imparato che se nasci in una condizione di marginalità ed isolamento a causa di un contesto familiare e sociale devastato - perciò devastante per chi abbia la sventura di farne parte -, se per disgrazia niente di se stessi è abbastanza ordinario, conforme, votato alla schiavitù, alla sudditanza, nulla - nemmeno la sponsorizzazione del più autorevole estimatore - potrà inserire in determinati consessi. Allora si comincerà a guardare come fossero un oltraggio quelli che se la suonano e se la cantano all’interno delle confortevoli quattro mura delle loro gabbie dorate ottenute per diritto successorio. Si guarderà i fortunelli ingozzarsi attraverso la vetrina che usano per sbattersi in faccia, ben protetti, agli esclusi. Li si guarderà mentre si spartiscono ciò che hanno negato o sottratto ad altri e un poco alla volta non sarà più possibile sopportarne la vista, l’esistenza.

È andata così, non ho potuto e non posso farci nulla, a parte voltarmi dall'altra parte per non essere costretto a guardare lo schifo che è e fa questa manica di spocchiosi privilegiati perlopiù ignari della propria nociva e pervasiva nullità. La nausea è cresciuta a tal punto che non voglio più subire il loro squallido teatrino, non voglio più far parte, seppur incidentalmente, di quelli a cui concedono qualche briciola d’esistenza in cambio di complicità, legittimazione. Non voglio sapere quello che combinano, come e perché. Già lo so. Non voglio più che la loro tossicità avveleni le mie giornate, contamini le mie ormai modeste aspirazioni, condizioni le mie irrisorie esigenze.

Ah, so quale pensiero attraversa la mente dei cortigiani in servizio alla corte dei miracoli che fa da modello a chi ne è escluso: l’uva acerba… uva acerba un corno! Nessuno dovrebbe stare quaggiù a scannarsi per qualche acino già rosicchiato, lanciato per scherno, cascato per caso, sfuggito all’arraffo, all’ingordigia. O perlomeno non dovevo starci io! E infatti neanche lì sotto mi hanno fatto stare. Nemmeno mi hanno permesso di avvicinarmi! E non me lo ha impedito chi stava in cima alla scala, dietro la vetrina, ma tutti quelli sotto, illusi, idioti come me, coi nasi pigiati contro il vetro a bramare l’impossibile, intonando la lamentatio dei vilipesi. Presuntuosi, ambiziosi senz’arte e merito, senza coraggio, consapevolezza, senza onore, vergogna - guai a toccarvi il teatrino, l’illusione di non essere zerbini! Quanti palmi spellati ho visto, quanti codazzi per uno sputo!

Eppure, nonostante quello che so, che ho subito, che non voglio più, eccomi qui, con il cappello in mano davanti alla porta di una privilegiata, una raccomandata qualunque che non intenderà un accidente di qualsiasi cosa possa dirgli, che non saprà darsi una spiegazione del perché alcuni chiedano in elemosina qualche spicciolo per arrivare alla fine del mese. Lei e i suoi padroni non ce la fanno proprio a capire, accettare, che vi sia altro, molto, moltissimo altro al di là del limite oltre il quale arriva il loro miope sguardo; e soprattutto non sono disposti ad ammettere che tanto, se non tutto del disastro che sono chiamati a contenere, governare, sia colpa loro e di chi li ha preceduti.

Eccola. Vestita come andasse a teatro - appunto. Eccola che mi squadra da capo a piedi. Sì, signora, sono un pezzente e lo sono anche grazie a lei e ai suoi cari amici, parenti!

Se solo potessi strapparle dalla faccia il fastidio, il biasimo che non si preoccupa minimamente di nascondere…

E sia.

Vado a ingoiare la mia dose quotidiana di disconoscimento e umiliazione.

«Lei è?»
«Rossi.»
«Ha portato i documenti che le sono stati chiesti?»
«Certo. »
«Me lo auguro…»

Fanculo, stronza.

 

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