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Aggiornato Domenica 14-Mag-2023

 

 

 

Mi piaceva. Mi era piaciuta sin da subito. L’avevo incontrata ad uno di quegli aperitivi elettorali a cui si va più per scroccare che per altro. Occhi chiari e capelli biondi hanno su di me un ascendente straordinario. Se nella stanza c’è una mora bellissima e una bionda niente di che, io prima guardo la bionda, poi l’altra – non posso farci nulla. A quell’aperitivo c’erano donne molto, molto attraenti, come si può facilmente immaginare. In genere, dove ci sono soldi e potere la bellezza femminile non manca, ma lei, seppur non straordinariamente bella, mi colpì più delle altre e per tutto il tempo non potei evitare di guardarla. Non era sola, naturalmente. Si accompagnava a un buzzicone tremendo, un uomo grezzo, brutto e sgradevole come solo gli esemplari Alpha possono esserlo. Mi sono sempre chiesto per quale ragione la bellezza, la raffinatezza, finissero per apprezzare e scegliere il proprio opposto. Qualcuno parla di compensazione, ma a me non sembra una spiegazione convincente - continuo a stupirmene. Così, già all’epoca del nostro primo incontro, e ormai sono trascorsi dieci anni, pensai che non avevo speranze: se anche lei “compensava” io, sotto tutti i punti di vista, non potevo far parte del suo target preferenziale - nemmeno per errore, per una svista, nemmeno ubriacandola l’avrei distratta al punto da passare per quello che non ero, quindi, nemmeno ci provai.

Devo ammettere che con le donne non sono mai stato spavaldo, tutt’altro. La timidezza, il senso di inadeguatezza, mi prostrano, abbattono. Con le donne, sul piano della conquista in senso tradizionale – io Tarzan, tu Jane -, sono un perdente. Non ho il fisico, né la convinzione necessaria per lanciarmi in una conquista o mettermi in gara contro un rivale, ma se mi si da il tempo, l’opportunità di mostrare le mie qualità tutt’altro che muscolari, allora qualche chance ce l’ho, non sono malaccio. Con lei non ebbi il tempo, né l’opportunità. Scambiammo giusto due parole di circostanza, poi lasciai la festa demoralizzato e finsi di dimenticarla.

Rincontrarla, per caso, dopo tutto quel tempo, mi parve un segno. Forse avrei potuto cercare di capire se magari, un pochino, potesse interessarle approfondire la nostra conoscenza. Mi feci coraggio e la invitai a cena. Incredibilmente accettò. Pensai che lo facesse perché aveva pena di me, della mia bassa statura, della mia inesistente virilità, della mia solitudine – dovevo essere ben solo per volere così intensamente uscire a cena con una sconosciuta, o forse ero solo un morto di fica, un poveraccio a cui si poteva anche dire di sì, una volta… ad ogni modo, vi avrei rinunciato solo se ne fossi stato costretto o lei non avesse voluto più, ma non accadde.

La sera che uscimmo a cena la prima volta, ero spaventatissimo. Sono sempre stato imbranato, ma come quella volta, in vita mia, mai. Un quindicenne se la sarebbe cavata meglio. Penso di aver fatto a malapena un paio di ragionamenti decenti, per il resto o sono stato zitto o ho detto sciocchezze indegne di una persona minimamente dotata di discernimento. Banalità e balbettii, insomma. Lei era splendida. Le guardavo le mani e mi mancava il fiato. Lo so, gli uomini non guardano le mani, guardano le tette, il culo, la bocca… l’ho detto, faccio pena e la maggior parte delle donne non apprezzano il genere d’uomo che sono, preferiscono andare sul sicuro scegliendo gli anelli di congiunzione tra la scimmia e l’Homo Sapiens, che non ci possono fare una parola, un ragionamento, ma sperano almeno che prendano a clavate la testa dei malintenzionati – povere illuse. Dicevo? Ah, le mani… a ripensarci mi emoziono ancora. Avrei dato qualsiasi cosa perché mi toccassero, mi sarei accontentato di una mano posata sulla spalla, una carezza, un’arruffata di capelli… avrei voluto dirle: «Possiamo stare zitti? Voglio guardarti, guardarti soltanto». Mi sopportò, ma probabilmente un po’ le piacevo altrimenti perché accettare di vedermi ancora? C’è un limite a tutto, anche alle opere di bene.

Così, con la scusa di aggiustare una perdita alle tubature del bagno, ebbi la possibilità di entrare in casa sua. Era una donna estremamente, forse esageratamente riservata e solitaria, ma questo lo scoprì più tardi, quando potei persino farle visita senza preavviso e senza che questo la disturbasse, come lei stessa ammise rendendomi felice. Mi accontentavo ancora di poco, a quel tempo: un caffè, un sorriso, la bella sensazione niente affatto scontata di essere benaccetto.

Aveva una casa straordinariamente pulita e ordinata, mai visto nulla di simile. Ne era gelosissima, o per meglio dire, era attentissima a proteggere la sua intimità, ideale e materiale, e la casa era, senza alcun dubbio, la sua roccaforte. Sono convinto che se avesse potuto non vi avrebbe fatto entrare nessuno, forse nemmeno se stessa. Insomma, presi l’abitudine di passare a trovarla almeno una volta alla settimana, non di più, per non andarle in uggia. Con il tempo ci sciogliemmo e cominciammo a comportarci con una certa naturalezza, abbastanza spontaneamente, ritrovandoci a ridere delle stesse cose, a capire una le battute dell’altro, a trovare interessi comuni, a canzonarci a vicenda prendendo in giro i reciproci difetti, facendo emergere una insospettabile ironia, seppur controllata. Ecco, soprattutto in questo ci somigliavamo: avevamo entrambi l’esigenza di avere sotto controllo le nostre esistenze. Lei garantiva quel controllo non concedendosi alla vita, io fuggendo l’amore a gambe levate – potevamo cagliare?

La prima volta che facemmo l’amore, tale fu l’emozione che non riuscì ad avere un’erezione degna di questo nome. Mi consolò, tranquillizzò. Prese il piacere come volle ed io mi sentì una donna. Mi sentì finalmente quello che ero senza saperlo. Una donna. Lesbica. E improvvisamente il mondo intorno a me crollò riempiendomi di macerie e terrore. Lo shock fu tale che per molto tempo ebbi vergogna persino a guardarmi allo specchio. Mi chiusi in casa. Spensi il telefono. Rimasi in silenzio, attonito, sgomento, pietrificato. Ma che razza di uomo ero diventato, che razza di uomo sarei mai potuto essere? Esisteva al mondo qualcosa che fosse anche soltanto minimamente simile a me? Con quale coraggio avrei potuto tornare da lei, cosa le avrei potuto offrire? Come potevo confessarle una tale mostruosità?

Una sera trillò il campanello. Una, due, tre volte, poi vi fu una scampanellata più lunga e un’altra subito dopo, interminabile. La testa mi scoppiava. Aprì, disperato, in lacrime. Era lei, spaventata dal mio stato, ma radiosa, felice di rivedermi. Tale fu lo stupore di fronte alla sua gioia che smisi immediatamente di piangere. Il suo sorriso era la corda che io, dal fondo del baratro in cui ero precipitato, afferrai senza rendermi conto. Mi tirò su e quando fu certa della mia resa, mi avvolse in un abbraccio fortezza che da allora non è mai venuto meno.

Sembrerà strano, ma abbiamo deciso che ognuno avrebbe continuato a vivere nella sua casa, conservando la propria indipendenza. Quando abbiamo bisogno di prenderci i nostri spazi o non possiamo fare diversamente, i bambini stanno dal genitore che preferiscono o è più utile in quel momento. Nessun dramma. Il maschio somiglia a lei e la femmina a me, pare accada spesso.

Sì, lei è la mia compagna ed io la sua, ma in fondo questo è un dettaglio che non significa nulla. No?

 

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