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Aggiornato Domenica 14-Mag-2023

 

 

 

Io che in chiesa nemmeno morto, quel giorno andai. Scelsi il santo più imponente, infiorato, e senza cerimonie dissi: «Se avete deciso così, va bene, non posso farci niente, ma portatemi via alla svelta, solo questo chiedo». E loro, i santi, sicuramente per farmi dispetto, mi tennero in vita – privandomi a poco a poco di tutto, non della consapevolezza.

Dopo oltre quindici anni di sofferenze, il cuore decise di averne avuto abbastanza e finalmente cessò di battere.

Ho sempre avuto un cuore incline a risparmiarsi, riottoso agli sprechi, capace perciò di tirar fuori inaspettate riserve di energia per esibirsi in grandi, improvvise e talvolta durature dimostrazioni di resistenza. Come quella volta che per far colpo su una ragazza decisi di scalare a mani nude una parete rocciosa. Precipitai rompendomi una gamba, non prima però di aver quasi raggiunto la cima senza aver mai fatto nulla di simile, né prima, né dopo, naturalmente. O come quella volta che, ancora oggi non so darmene ragione, decisi di raggiungere a nuoto lo scoglio affiorante di una secca. Pareva largamente alla mia portata e vicinissimo, vicino invece non era e le correnti che sapevo essere ostili, lo resero irraggiungibile. Così, mi ritrovai a nuotare senza avanzare di un centimetro qualunque direzione prendessi e non mollai fin quando non vennero a ripescarmi. Tornato a terra scoprii di essere stato in balia delle onde più di un’ora, non pochi minuti come credevo. Esperienza che evitai di ripetere negli anni successivi non allontanandomi mai dalla riva.

Un buon cuore, quindi, a cui dovevo la forza che mi teneva in piedi anche quando lavoravo quattordici ore al giorno nella fonderia di famiglia, da bambino, e più tardi, da ragazzo e uomo, in cokeria. Un cuore che non cedeva nemmeno alla vista dei colleghi, degli amici e dei familiari che morivano come mosche.

Al tempo in cui mi diagnosticarono il cancro ai polmoni non mi stupii. Stavamo morendo tutti di qualche patologia causata dalle attività dell’acciaieria. Quando negli anni Cinquanta era sorta la fabbrica togliendo dalle campagne gli uomini, dando ad ogni famiglia uno o più stipendi certi, ci sembrò di aver fatto tredici. Vi fu un grande sviluppo: le vecchie case furono abbattute e sorsero condomini, palazzine; le botteghe sparirono e arrivò il commercio moderno; ognuno poté indebitarsi per comprare quello che voleva: auto, elettrodomestici, mobilio; i figli poterono studiare, le famiglie poterono andare in ferie, i malati poterono curarsi. Ci sentimmo ricchi, arrivati. Qualcuno chiese cosa ne sarebbe stato del territorio, delle tradizioni, quali conseguenze avrebbe avuto la fabbrica sulla qualità della vita, ma lo facemmo tacere, non c’interessavano le risposte. Volevamo un po’ di benessere - i soldi, pochi magari, ma sicuri. Stavamo barattando la nostra vita, quella dei compaesani comunque la pensassero e quella dei nostri discendenti, in cambio di un salario, ancorché modesto. Stavamo distruggendo il futuro, non solo il nostro. I padroni, le banche e i politici brindavano alla nostra dabbenaggine, ma noi avevamo da mangiare in abbondanza, finalmente denaro da spendere e i santi a cui raccomandarci, affidarci – dopo secoli di miseria e sfruttamento senza guadagno, non chiedevamo di più. Per parte mia, sapevo solo che volevo mettere su famiglia, capivo solo che vi erano enormi, vantaggiose differenze tra la fonderia e la cokeria: intanto a comandarmi non c’erano mio padre e i suoi fratelli, poi lavoravo metà del tempo, infine venivo pagato. Tutto il resto era aria fritta, per me.

A guardar bene non mi è nemmeno andata male. Sono vissuto abbastanza per capire che dare la vita per vivere non è una buona idea, meno che mai un buon affare.

 

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