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Aggiornato Mercoledì 12-Apr-2023

Mariuccia terminò d’incollare l’ultimo ritaglio, si allontanò dal vassoio e lo guardò a lungo, soddisfatta. Sì, era proprio una bella composizione: fiori e frutta, l’ideale per un centro tavola. Aveva scoperto la tecnica del decoupage su una rivista femminile e da qualche anno passava il suo tempo libero decorando qualsiasi oggetto altrimenti destinato alla spazzatura. Era un buon modo per riciclare, le consentiva di guadagnare un po’ di soldini senza doverli sempre chiedere al marito e l’aveva messa in contatto con moltissime persone, alcune simpatiche o interessanti.

All’inizio donava i suoi manufatti alle associazioni benefiche in modo che potessero metterli in vendita durante le loro campagne di raccolta fondi, alle fiere e ai mercatini di beneficenza - poi, quando scoprì che andavano a ruba, pensò di metterli in mostra autonomamente passando ben presto alla realizzazione di quella che lei definiva Arte ad uso, cioè godibile e utilizzabile.

Per poter lavorare in santa pace senza recare disturbo ai familiari, aveva allestito in soffitta uno studio assai grande. Mariuccia, però, non era una donna ordinata, così, a entrarvi, si aveva l’impressione di trovarsi in un caotico bazar: dappertutto oggetti di ogni tipo e materiale accatastati malamente, senza un criterio apparente; in mezzo alla stanza un tavolaccio ricoperto di riviste, forbici, matite, righelli, pennelli; contro una parete una scaffalatura metallica piena zeppa di barattoli, colle, stucchi, carta a vetro, vernici, scatole di scarpe contenenti ritagli; sulla parete opposta un’altra scaffalatura per gli oggetti finiti, per fortuna imbustati nel cellophane trasparente perché non prendessero polvere e li si potesse riconoscere a colpo d’occhio. Quel caos inestricabile era divenuto il suo rifugio, i collages una fuga dalla quotidianità e la sua unica consolazione.

Con il trascorrere degli anni, i rapporti con il marito si erano progressivamente deteriorati, in un certo senso sfilacciati. A malapena si parlavano.

A suo avviso, tutto era cominciato dopo la nascita del secondo figlio. Lei era molto indaffarata e lui sembrava a disagio, quasi irritato per le attenzioni che il piccolo riceveva a suo discapito. Era diventato sfuggente, distratto, disinteressato a lei, alla sua bellezza, alla sua sempre più pressante richiesta di spiegazioni e dimostrazioni affettive. Mariuccia aveva pensato a una fase transitoria dovuta allo stress, al peso degli impegni lavorativi, all’invadenza dei figli – non appena fossero cresciuti, avrebbero potuto ricominciare a dedicarsi uno all’altra, ma il tempo era trascorso esaurendo giorno dopo giorno ogni residua possibilità di comunicazione, confidenza, intimità. Mariuccia giunse alla conclusione che non la amasse più, si rassegnò a dover convivere con il fantasma dell’uomo che aveva sposato e si barricò definitivamente in se stessa chiudendolo fuori. Trovava fastidioso dividere con lui lo stesso letto, lo stesso bagno. Gli avrebbe chiesto volentieri di sparire, invece, per salvare almeno le apparenze era costretta a sopportarlo, a comportarsi come se nulla fosse. Erano diventati estranei, due entità perfettamente distinte nel rapporto con i figli per i quali lui era una figura inutile, ingombrante, e lei un sicuro riferimento ingiustamente trattato, costretto all’infelicità.

Mariuccia aveva ammansito la frustrazione dedicandosi alla cura dei figli. Divenuti grandi, si era concentrata sul suo hobby trasformandolo in una soddisfacente attività creativa che l’aveva fatta conoscere e apprezzare anche nell’ambiente degli artisti. Mariuccia era una donna piacevole. Non c’era vernissage, inaugurazione, esposizione alla quale non fosse invitata, non c’era casa di amici e parenti in cui non vi si trovassero le sue creazioni – se non le acquistavano spontaneamente era lei a regalargliele, così, se avessimo ispezionato i loro sgabuzzini, avremmo scoperto dove finivano.

Mariuccia spense le luci dello studio e scese al piano di sotto dove incrociò Piergiorgio.

Piergiorgio terminò d’installare il sistema operativo e i vari software che il cliente aveva ordinato, ne verificò il funzionamento e modificò alcuni settaggi per migliorarne efficienza e sicurezza. Aveva imparato i rudimenti della programmazione in ufficio, poi, quando l’azienda gli propose il prepensionamento e una buonuscita al posto della cassa integrazione seguita da un sicuro licenziamento, aveva deciso di mettersi in proprio, al nero naturalmente: sfruttando queste conoscenze e approfittando della pensione, avrebbe potuto lavorare per diletto, senza ansietà.

Cominciò a ritirare dagli amici i loro computer rotti, obsoleti o inutilizzati: loro erano contenti perché se ne liberavano, lui ne estraeva pezzi di ricambio e dai migliori, sostituendo i vecchi componenti con altri al passo con i tempi, ricavava un discreto guadagno seppur rivendendoli a un prezzo contenuto. Era senza dubbio un buon modo per riciclare e anche un passatempo utile e interessante.

Dato il successo della sua piccola iniziativa, aveva dovuto attrezzare a magazzino e laboratorio una stanza inutilizzata del piano terra. Piergiorgio era precisissimo, maniacale: non c’era periferica, componente, cavo, vite, software che non avesse catalogato, di cui potesse dimenticare l’esistenza, perdere le tracce. Ogni oggetto e utensile aveva il suo posto e dopo l’uso vi tornava, in perfetto stato e perfettamente custodito. Conservava solo le cose che poteva riutilizzare, aggiustare e piazzare, il resto finiva in discarica tra i rifiuti speciali – in questo modo non rischiava mai di confondersi, rimanere senza spazio. Il cellulare squillava in continuazione e l’agenda dei suoi impegni traboccava di appuntamenti - era così gratificante sapersi apprezzati, adeguati, ma solo quando si chiudeva nel suo laboratorio si sentiva al sicuro, protetto.

Con il trascorrere degli anni, i rapporti con la moglie e i figli si erano progressivamente deteriorati, in un certo senso sfilacciati. A malapena si parlavano.

Tutto era cominciato con un piccolo disturbo alla prostata scioccamente e tacitamente trascinato nel tempo. Quando infine si decise a ricorrere alle cure di uno specialista, nel suo cervello si era ormai fatta strada l’irrazionale e immotivata convinzione di essere diventato impotente, quindi, sebbene completamente guarito, continuò a soffrirne. Per non dover giustificare quella vergognosa inabilità, divenne scostante, evasivo. Dopo un po’ non fu più possibile porre rimedio alle incomprensioni che tale comportamento aveva generato. Piergiorgio si sentì abbandonato, pensò di non valere più nulla per i suoi familiari, in particolare per la moglie che, dopo tanti rifiuti, aveva ovviamente smesso di cercarne le attenzioni, chiedere spiegazioni. A quel punto, Piergiorgio si chiuse definitivamente in sé dimenticando volentieri la causa dei suoi mali, quasi adagiandovisi con sollievo. Dividevano la stessa casa, lo stesso letto, lo stesso armadio, lo stesso bagno. A tavola sedevano uno accanto all’altra, lo sguardo sul piatto. Amichevoli di fronte agli ospiti, talvolta persino falsamente affettuosi. Entità perfettamente distinte nel rapporto con i figli per i quali lui era pressoché inesistente, scarsamente ingombrante nonostante la mole, e la madre una specie di vittima della sua incomprensibile indifferenza.

Piergiorgio aveva compensato la disistima verso se stesso e la mancanza di comprensione, rifugiandosi non solo nel lavoro, ma anche nel cibo. Di abbuffata in abbuffata aveva largamente superato i centotrenta chili che, se non avessero trovato spazio lungo i suoi 197 centimetri d’altezza, lo avrebbero reso una palla di grasso impressionante. Piergiorgio però curava molto il suo aspetto, aveva un bel portamento, vestiva con cura ed eleganza, sembrava possente, non obeso, per questo ispirava fiducia, benevolenza – a piccole dosi, era un ospite benaccetto ovunque andasse.

Piergiorgio chiuse a chiave il suo laboratorio e salì al piano di sopra dove incrociò Mariuccia.

 

I due si guardarono di sottecchi ed entrarono in cucina. Lei prese la caffettiera per prepararsi un macchiato. Lui aprì il frigo cercando una birra.
«A che ora dobbiamo essere da Paolo?»
«Giusy ci aspetta per le otto, otto e trenta.»
«Cosa gli hai preso?»
«Sono dieci anni che i regali li realizzo da sola, Piergiorgio, e tu non te ne sei ancora accorto.»
«Altrochè. Forse dovresti cambiare genere – la gente non sa più cosa farsene, dove metterli.»
Piergiorgio non voleva offenderla, semplicemente tentava di farle notare che dopo un tot di vassoi, piatti e secchi, forse era meglio passare ad altro, ma Mariuccia trasformava tutto in una questione personale: se Piergiorgio non era capace di essere carino con lei o almeno educato, che stesse zitto. Il silenzio impone se stesso. Si versò una tazzina di caffè e senza dire una parola uscì dalla cucina.
Piergiorgio scolò la birra tutta d’un fiato prima di decidersi a raggiungerla. «Pensi che sarebbe meglio se me ne andassi? I figli ora sono grandi, non hanno più bisogno di noi, come coppia intendo.»
«Che non siamo una coppia hai ragione.»
«Mariuccia, non rivanghiamo, ti prego.»
«Il guaio è che non c’è nulla da rivangare, Piergiorgio. Mi hai lasciata sola, senza una spiegazione, un motivo.»
«Anche tu mi hai lasciato solo, Mariuccia. In fondo ti chiedevo soltanto di lasciarmi in pace, di non tormentarmi, di darmi fiducia, un po’ di tempo. Ti amavo, cos’altro volevi?»
«Un compagno volevo! E invece mi sono ritrovata a dover dividere il letto con un estraneo! Dovevi parlarmi, darmi la possibilità di far qualcosa - ma niente, niente! Un muro sei stato e un muro sei ancora!»
«Tu non vedi altro che te stessa, Mariuccia – ecco il tuo problema. Le tue necessità, i tuoi bisogni - io, io, io. Quand’è l’ultima volta che hai dato spazio ai miei, che vi hai prestato ascolto?»
«Quand’è l’ultima volta che ne hai avuti, che ti sei degnato di comunicarmeli? Mi hai tagliata fuori! Buona solo per lavarti e stirarti la roba, farti da mangiare, mettere al mondo i tuoi figli e allevarli!!! Esaurito lo scopo neanche una carezza, un grazie – te ne sei lavato le mani, Piergiorgio, povero te se non te ne rendi conto.»
Fu come ricevere una sberla. Piergiorgio rimase stordito, immobile per alcuni secondi, raggelato di fronte al ricordo della sua vita, di quei figli che non poteva dire di conoscere, della donna amata e poi smarrita - si volse verso Mariuccia cercandola, ma non la riconobbe. Che uomo avrebbe potuto essere per lei? L’aveva persa per colpa di quel ridicolo pezzo di carne in cui s’identificava ciecamente, che credeva lo rappresentasse più di qualunque altra qualità. La bandiera della sua debole, molle, incerta identità, a un certo punto aveva smesso di sventolare, lui l’aveva ammainata - ma queste sono faccende umilianti che non si possono raccontare nemmeno a se stessi.
«Tu non sai, Mariuccia – ci sono cose che una donna non può capire.» Disse con un filo di voce.
«Che sei un vigliacco? Uno stupido perché pensi di valere meno del tuo pene? Credi davvero che mi sarebbe mancato se avessi avuto te? Sei tu che non sai, Piergiorgio, che non puoi capire - e adesso è tardi, tardi per qualsiasi cosa. Sì, penso che sarebbe meglio se te ne andassi. Peccato non averlo fatto prima.» Mariuccia sorrise, senza acredine, con rassegnazione. Piergiorgio abbassò il capo, annuì e andò in camera a preparare le valige.

 

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